“In Ta’abir El-Zaar we were all women, unique and together, we were chanting, howling, singing, grunting, hypnotized by one another's presence, infecting and inflicting one another to release, collapse, to eventually heal. It was all about chanting, about sound, drumming, and the sound of our magnetic voices to connect and communicate. To disconnect. There were no rules to follow. But I do remember wanting to find this sound, this inner voice in me, a vibration that would carry me into others, further into transcendence and transformation. My voice is the catharsis to release my demons, my madness and hysteria. Taabir means an expression, it is that moment of accepting catharsis to heal such demons." -  Jasmina e Kamila Metwaly, dal comune progetto in corso The sound of the wind is not a metaphor.

 

In questo lavoro Kamila Metwaly tenta di continuare una conversazione iniziata pochi anni fa con Halim El-Dabh, compositore egiziano, pioniere della musica elettronica, etnomusicologo, panafricanista e filosofo del suono, scomparso nel 2017 all'età di novantasei anni. Durante il brevissimo lasso di tempo della loro conoscenza, El-Dabh è diventata una delle figure chiave per il pensiero e la pratica artistica e curatoriale di Metwaly.

Con El-Dabh e questa immaginaria conversazione, Metwaly entra in uno spazio intimo ma allo stesso tempo mette in discussione i tentativi di normalizzare e sminuire una delle avanguardie musicali più interessanti del Novecento. Si chiede quali siano le logiche per cui Halim El-Dabh potrebbe essere escluso dal canone.

Un artista la cui leggendaria composizione It is Dark and Damp on the Front (1949) gli ha dato il riconoscimento internazionale prima ancora di ricevere una formazione musicale formale; che ha collaborato con Martha Graham; che ha composto uno dei primi brani di musica elettronica, Taabir El-Zaar (1944), la cui installazione sonora Here History Began (1961) è diventata sinonimo delle piramidi di Giza; e la cui visione panafricanista lo ha portato in tutto il continente africano a collaborare con pensatori, musicisti e politici come Leopold Sedar Senghor e Haile Selassie, mentre raccoglieva suoni e strumenti da tutto il continente e dalla diaspora.

A sonic letter to Halim El-Dabh è un tentativo di prevenire that ongoing work of agnosia from deleting the future memory of the black avant-gardes (Kodwo Eshun): in questo lavoro sonoro in continuo e costante cambiamento, Metwaly - in conversazione con El-Dabh - immagina come dei possibili mondi futuri, possano essere influenzati da diversi passati e da molti ascolti che rendano le nostre storie spazi più relazionabili.

 

Nel suo lavoro, Kamila Metwaly torna ripetutamente alla domanda: Chi ascoltiamo? che diventa centrale al suo lavoro curatoriale e a un'indagine a lungo termine sulle storie delle arti sonore e della musica sperimentale. Attraverso diversi approcci all'ascolto, Metwaly cerca di ri-immaginare un mondo egualitario che ascolta da vicino il nesso voce-corpo-mente, per sfidare le storie coloniali, razziste, oppressive, sessiste e aggressive che il suono spesso veicola. Lavorare con il suono diventa una proposta per attivare l'orecchio come organo politico nella storia dei nostri corpi. 

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